Vivo in un enorme palazzo costruito agli inizi degli anni settanta da una cooperativa di conducenti di autobus.
Ora che siamo quasi nel 2012 gli autisti sono tutti anziani, l’autobus non lo guidano più da un pezzo, e come formiche un po’ stanche escono quotidianamente dalla loro casa e si spargono nel quartiere per sgranchire le gambe, fare piccole compere nel vicino mercato rionale, oppure li trovi davanti al portone che si aggiornano sugli ultimi accadimenti: il giardiniere non è venuto questa settimana, la signora del quarto piano si lamenta di un’infiltrazione, l’amministratrice ha stufato, …
Io che corro sempre come una scheggia circondata di bambini, mi sento particolarmente giovane in un simile habitat, con tutti che mi osservano come se fossi uno spiraglio di luce, di vita, ma portatore di malinconia, per i tempi in cui “correvamo pure noi”. Tuttavia, alle quattro di ogni pomeriggio un evento ci unisce, un appuntamento al quale non si può mancare.
Scendo di corsa per recuperare i miei bambini di ritorno da scuola a bordo dell’inconfondibile scuolabus giallo, e mentre faccio avanti e indietro sul marciapiede attendendo di scorgere il pulmino, alzo lo sguardo verso il mio palazzone di nove piani, e vedo i balconi e le finestre che pullulano di teste più o meno pelate, brizzolate, canute degli uomini, insieme alle tinte rosse o nere dei capelli, i grembiuli da cucina, le ciabatte delle mogli, tutti uniti in una sorta di coreografia istintiva, un volo di gruppo, un movimento da nuoto sincronizzato, tutti che aspettano i bambini della giovane signora del settimo piano.